La Dott.ssa Francesca Castellano è Psicologa, Psicodiagnosta, Psicologa Giuridica e Psicoterapeuta Cognitivo-Comportentale.
Ha maturato esperienze di collaborazione in vari ambiti pubblici, soprattutto psichiatrici (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Centro di salute mentale), ma anche di sostegno ai malati oncologici (Aimac- Associazione Italiana Malati di Cancro).
Attualmente è socio dell'AIPG (Associazione Italiana Psicologia Giuridica), collabora con l’Asl Roma 2 e con l’Associazione di Clinica Cognitiva (A.C.C.) all'interno della quale ha contribuito a fondare il gruppo di Lavoro EIKASIA, che si occupa di Comportamento Alimentare e Disturbi dell'Alimentazione, e conduce Gruppi di Mindful Eating.
Si occupa di:
Per contattare la Dott.ssa Francesca Castellano Psicologa e Psicoteraputa chiama al 340 33 28 111
Può essere chiamato a prestare la sua professionalità in procedimenti riguardanti:
Ambito civile:
Ambito penale:
Adulti:
Minori:
Durante un procedimento giudiziario il giudice può decidere di nominare un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) che faccia le proprie veci in merito alla valutazione di un ambito che non riguarda strettamente la giurisprudenza, in questo caso la psicologia o la psichiatria.
A questo punto le parti in causa hanno il diritto di nominare, in tempi stabiliti, un proprio consulente tecnico di parte, che possa tutelarli e supervisionare l’operato del CTU.
Il CTP, dunque, ha la funzione di:
Legalmente un qualsiasi psicologo abilitato può essere chiamato a svolgere la funzione di CTP, attenzione però a rivolgersi ad una persona realmente qualificata!
Non tutti gli psicologi hanno esperienza nell’ambito giuridico e hanno le competenze per poter valutare anche le modalità di applicazione di eventuali test utilizzati dal CTU.
Il CTP in questione deve aver ben chiare in mente le fasi processuali e le fasi di svolgimento di una CTU, in modo da poter far emergere anche eventuali errori procedurali fatti durante la consulenza.
È importante considerare anche una certa onestà intellettuale e professionale del CTP, non è solo un elemento di parte; egli deve assolutamente in primo luogo fare gli interessi di eventuali minori coinvolti, in caso ad esempio di separazione giudiziale e affido, e cooperare, con il CTU e l’altro CTP, affinché i conflitti tra le parti vengano in qualche modo appianati per raggiungere un accordo.
In questa prospettiva è importante che mantenga una sua autonomia professionale anche nei confronti della figura dell’avvocato con cui si rapporterà. Il CTP assume così un ruolo complesso di mediazione tra le attese e le aspettative della parte e del legale, il lavoro di tutela e di vigilanza richiesto dal proprio ruolo, i propri principi professionali, etici e deontologici, "il benessere del minore" e l'indagine peritale condotta dal CTU.
È importante quindi che la persona a cui ci rivolgiamo sia un professionista formato in Psicologia Giuridica e Psicodiagnostica Forense.
Se desideri maggiori informazioni o chiedere una consulenza, se ti serve un Consulente Tecnico di Parte di alta formazione, non esitare a contattami!
I media, ormai all’ordine del giorno, riportano notizie di abusi su minori, perpetuati da padri, patrigni, nonni o altre figure “familiari”, che emergono solo dopo anni e anni in cui quella tragedia silenziosa ha potuto recare danni permanenti alla vittima. Danni causati sia dall’abuso in sé, sia dal trauma, perché di trauma si tratta, rappresentato dalla negligenza della madre, colei che spesso assiste silenziosa.
Per indicare gli abusi sessuali all’interno della famiglia, viene usato il termine incesto, che indica qualunque tipo di relazione sessuale tra un bambino e un adulto che condividono un legame di parentela, o che vivono insieme (Goodwin, 1985).
Quali sono le caratteristiche e le dinamiche che entrano in gioco nell’abuso intrafamiliare?
Possiamo individuare delle fasi specifiche dell’incesto, da quando inizia a quando viene scoperto:
Il terreno entro il quale attecchisce questo tipo di condotta è quello rappresentato da una famiglia dai confini rigidi e chiusi, in cui i ruoli stessi sono rigidi e predeterminati per cui i vari componenti non hanno un ruolo equilibrato, ma colui che detiene il potere è il padre, che gestisce i livelli inferiori tenendo la moglie e i figli come suoi sottomessi.
Proprio in questo tipo di famiglie spesso avviene l’incesto, contesti in cui di solito i genitori sono distanti e non riescono a empatizzare con i figli e in cui la vita matrimoniale è infelice o totalmente assente, dunque l’incesto paradossalmente diventa una sorta di soluzione al dilemma familiare.
In queste famiglie in cui si vuole evitare il conflitto, la madre è affettivamente distante dai figli, i genitori colludono riguardo all’abuso e dunque il padre diventa dipendente dalla madre a livello emotivo proprio per l’esistenza di questa collusione. La donna quindi tiene saldamente legato il partner al contesto familiare e, in qualche modo, a sé stessa, impedendo così la risoluzione del conflitto.
Bisogna, a questo punto, riuscire a focalizzare la personalità di questa madre, come si manifesta nel contesto dell’abuso intrafamiliare e come si intreccia con quella del partner direttamente abusante. Indicativo è il fatto che si utilizzi la dicitura “famiglia abusante”, già questo indica una diretta responsabilità di entrambi i membri della coppia.
Diversi studi parlano proprio di tipologie di personalità, materna e paterna, che s’intrecciano a creare un contesto abusante:
I TIPOLOGIA
II TIPOLOGIA
I TIPOLOGIA
II TIPOLOGIA
Nel primo caso, la madre, essendo una figura assente, marginale, collude perfettamente col partner della prima tipologia e, col suo atteggiamento, aiuta e rinforza il suo comportamento, evitando di affrontarlo e facendo finta di niente per tenere unita a tutti i costi la famiglia.
Nel secondo caso l’uomo, essendo apparentemente succube e passivo, innesca una particolare dinamica familiare per cui ricerca accudimento e compatimento dai figli, tutto questo inizia con semplici scambi di affettuosità per degenerare sempre di più in giochi erotici. In questo caso si innesca probabilmente la dinamica di rovesciamento di ruoli tra madre e figlia, quest’ultima infatti, in qualche modo sopperisce, sostituisce una figura materna fredda e distante anche col partner. Ricorre nelle testimonianze delle figlie abusate, la strana assenza della madre in entrambi i ruoli, sia quello di sposa che quello di madre.
S’innesca così una sorta di circolo vizioso poiché la figlia viene caricata di responsabilità a cui non può sottrarsi, pena la perdita dell’affetto dei genitori di cui lei, da bambina, non può fare a meno. Questo circolo viene etichettato come “terrorismo della sofferenza”, caratterizzato dalla tendenza a riversare sui figli qualsiasi tipo di disordine interno alla famiglia.
Uno dei fattori che porta a peggiorare la situazione del minore abusato è il silenzio, il tacere che il fatto sia avvenuto e che si protragga nel tempo. Questa situazione si verifica nella maggior parte dei casi, ed è proprio questo che rende difficilmente individuabile anche se l’abuso ci sia stato o meno. Tutto questo innescato dal fatto che non solo ci sia la cura di non essere scoperto da parte dell’autore, ma dalla presenza di un vero e proprio ottundimento psichico, non solo da parte della vittima, ma anche dagli altri attori della scena, in particolare l’altro adulto potenzialmente protettivo, la madre, al fine di poter produrre meccanismi di adattamento sufficienti a convivere con l'abuso e a preservare la propria persona e le relazioni importanti dalla catastrofe che si suppone inevitabile una volta che i fatti dovessero venire alla luce.
Tutto questo nasce dal nucleo di una coppia perversa, ma questa coppia è nata perché due persone complementari si sono inevitabilmente incontrate, oppure qualcosa che si attiva nello specifico incontro lì ha fatti diventare così?
Direi che un soggetto perverso, di qualsiasi tipo egli sia, trova terreno fertile nella relazione con una madre spaventata, e probabilmente essa stessa abusata, che dunque, nel contesto, diventa sua vera e propria complice, seppur passiva.
Le fondamenta di tutto ciò sono costituite da un silenzio che assume, a questo punto, connotazioni di assenso. Questo silenzio è però pesante e assai rumoroso, schiaccia la figlia vittima di abuso che, sostituendosi alla madre come moglie e come figura accudente, cerca di proteggerla dal dolore che proverebbe se tutto fosse svelato.
Aprire il vaso di Pandora significherebbe dare un dolore a questa madre, che però non si preoccupa del dolore di sua figlia, un circolo vizioso senza soluzione di continuità.
Il termine mobbing indica un insieme di comportamenti aggressivi, di natura psicofisica e verbale, esercitati da un gruppo di persone nei confronti di altri soggetti. Questo tipo di comportamento è stato studiato persino in etologia, per cui non avviene di rado, sia nel mondo animale che umano, che un gruppo, nello stesso ambiente, si coalizzi per mettere in difficoltà un singolo.
Il primo a parlare di questo fenomeno in ambito lavorativo fu lo psicologo tedesco Leyman, il quale lo definì come “terrore psicologico che consiste in messaggi ostili e moralmente scorretti, diretti sistematicamente da uno o più individui verso un solo individuo, il quale a causa del perpetuarsi di tali azioni viene posto e mantenuto in una condizione di impotenza e incapacità di difendersi. Le azioni di mobbing si verificano molto frequentemente, almeno una volta la settimana, e per lungo tempo, almeno 6 mesi. A causa della frequenza e della lunga durata del componente ostile, questo maltrattamento produce uno stato di considerevole sofferenza sul piano mentale, psicosomatico e sociale”.
Lo stesso Leyman individua quattro fasi del mobbing:
In generale il mobbing può essere di due tipi: orizzontale, tra colleghi di pari grado, in cui la vittima viene isolata e distrutta in campo lavorativo e privato; verticale, che viene effettuato da un superiore o nel caso di un’intera azienda definito come bossing ed effettuato con lo scopo pianificato di indurre il dipendente alle dimissioni.
Tristemente noto, soprattutto attualmente, è il mobbing sessuale, il quale rappresenta un particolare tipo di comportamento vessatorio in cui la strategia utilizzata è a sfondo sessuale. Bisogna fare molta attenzione nel distinguere il mobbing sessuale dalle molestie sessuali, in questo caso infatti, l’individuo non è mosso esclusivamente da desiderio sessuale nei confronti dell’altro, spesso una donna, ma utilizza strategie a sfondo sessuale per allontanarla dall’ambiente lavorativo.
Svariate ricerche sostengono che non esiste una categoria di lavoratori più a rischio nel divenire vittima, chiunque potrebbe essere bersaglio di attacco da mobbing. Esistono, in realtà, fattori che favoriscono il fenomeno, ad esempio essere troppo passivi o troppo aggressivi nelle relazioni. Sotto questo aspetto gli eccessi, in entrambi i sensi, possono essere a rischio, quindi una potenziale vittima potrebbe essere il collega servile che vuole sempre far contento il capo, oppure colui che va d’accordo con tutti e può scatenare l’invidia degli altri. Difficile dunque, delineare il vero profilo di una vittima di mobbing, molto dipende anche dalle dinamiche ambientali e dalla caratteristiche degli individuo con cui si viene a contatto.
Il danno da pregiudizio esistenziale indica un danno che contempli un peggioramento della qualità della vita, riconducibile non alla salute psico-fisica ma, piuttosto, ai valori dell'esistenza del danneggiato. Si tratta, in altre parole, della compromissione, a seguito di un particolare evento traumatico, delle attività che realizzano la personalità dell'individuo, delle sue occasioni felici, della sua vita quotidiana.
Il danno da mobbing è un danno di natura esistenziale, che pregiudica la qualità di vita in sento lato della vittima e non ha nulla a che vedere con il diverso concetto di danno biologico da mobbing, che si riferisce invece a un danno alla salute, di valutazione specificamente medico-legale.
Quello che invece deriva sempre da una situazione mobbizzante è la modificazione della realtà concreta della vittima, derivante dai condizionamenti e dalle compressioni innescate dallo stress provocato dai comportamenti illeciti subiti. Certamente la vittima denuncerà un danno psichico che andrà poi comprovato con consulenze specialistiche che saranno volte ad analizzare i disturbi lamentati, il contesto lavorativo, il nesso causale, le responsabilità, l’esclusione di simulazione, ecc.
Per procedere ad una valutazione in tal senso sarà senz’altro indispensabile rivolgersi ad uno psicologo giuridico che possa, anche tramite l’utilizzo di test, oltre che di colloqui, arrivare a poter attestare che la vita del soggetto sia cambiata sotto gli aspetti sottolineati e possa anche diagnosticare un’eventuale patologia emersa a seguito del mobbing subito.
Se pensi di essere vittima di mobbing o per un confronto con i nostri psicologi giuridici a Roma, contattaci con fiducia, ti risponderemo immediatamente.
La psicoterapia cognitiva si basa sul concetto fondamentale, elaborato dagli psicanalisti Beck ed Ellis, per cui le rappresentazioni mentali del paziente (credenze, pensieri automatici, schemi) permettono, con un minimo d’inferenza, di spiegare il disagio psicologico e il suo perpetrarsi nel tempo. Alla luce di questo, dunque, si può dedurre che la patologia è frutto di pensieri, schemi e processi disfunzionali.
Questa teoria sottolinea l’importanza delle distorsioni cognitive e della rappresentazione soggettiva della realtà che l’individuo ha nella sua mente e che è spesso all’origine dei disturbi emotivi e comportamentali.
Ciò implica che non sarebbero gli eventi da soli a creare e mantenere i problemi psicologici, emotivi e di comportamento, ma sarebbe il modo in cui l’individuo li interpreta sulla base dei suoi schemi e delle sue credenze.
Benché ancora oggi la terapia cognitiva di Beck rivesta un ruolo dominate nell’Associazione Internazionale di Psicoterapia Cognitiva, attualmente, quando si parla di terapia cognitiva si fa riferimento ad un metodo terapeutico non omogeneo, all’interno del quale si distinguono decine di approcci diversi.
L’elemento che accomuna tutti gli approcci è proprio il riconoscere i processi cognitivi, quindi le strutture di significato e i processi di elaborazione dell’informazione, come il fulcro della spiegazione dei fenomeni clinici.
La terapia cognitivo-comportamentale (Cognitive-Behaviour Therapy, CBT) si propone, di conseguenza, di aiutare i pazienti ad individuare i pensieri ricorrenti e gli schemi disfunzionali di ragionamento e d’interpretazione della realtà, al fine di sostituirli e/o integrarli con convinzioni più funzionali.
A questo scopo, combina due differenti forme di terapia:
Il cambiamento dei contenuti e dei processi cognitivi problematici (convinzioni, valutazioni, aspettative, emozioni, distorsioni cognitive, ecc.) nella terapia cognitivo comportamentale, non viene perseguito soltanto mediante la discussione e la riformulazione delle convinzioni disfunzionali dei pazienti, bensì mediante numerosi e variegati metodi d’intervento, diretti non solo agli aspetti cognitivi del funzionamento dell’individuo, ma anche a quelli specificamente emotivi e comportamentali.
È importante andare a comprendere quali siano le emozioni alla base di una determinata reazione ad un evento, molto spesso non è cosi facile stare nel “qui ed ora” e comprendere realmente ciò che si prova. La terapia cognitivo-comportamentale mira anche a questo, a saper riconoscere le proprie emozioni per saperle vivere e fronteggiare al meglio.
La terapia cognitivo-comportamentale è :
La terapia cognitivo comportamentale è attualmente considerata, a livello internazionale, uno dei più affidabili ed efficaci modelli per la comprensione ed il trattamento dei disturbi psicopatologici.
Nell'immaginario comune è correlata spesso alla cura dei disturbi d’ansia (Attacchi di Panico, Fobie, Ansia Generalizzata), ma ha un’efficacia scientificamente provata per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, nonché per molte altre patologie, tra le quali Depressione e Disturbo Bipolare, Disturbi del Comportamento Alimentare, Disturbi di Personalità, Disfunzioni Sessuali, Disturbi del Controllo degli Impulsi, Bassa Autostima.
L’équipe del nostro Centro a Roma annovera psicoterapeuti a orientamento cognitivo-comportamentale, specializzati nel trattamento dei disturbi dell’età evolutiva.
Dall’inizio del percorso di cura, alla fine della terapia, la diagnosi di cancro rappresenta, per il malato e i suoi familiari, un vero e proprio evento traumatico. Effettivamente ne ha tutte le caratteristiche: uno shock violento sull’intero organismo, a livello fisico e psichico. Alla “categoria trauma” infatti, vengono attribuiti tutti quegli eventi che portano alla morte o che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care.
Un trauma di questo tipo, è una battuta d’arresto nel corso dell’esistenza, suscita sentimenti di angoscia e frustrazione fino ad arrivare a veri e propri sintomi depressivi.
L’ ansia in questione può essere sia correlata alla minaccia specifica della malattia, sia ad un generale stato di incertezza del proprio futuro e dell’esito dei trattamenti.
Svariate sono le aree in cui possono emergere paure specifiche del paziente:
A tutto questo si aggiungono le conseguenze pratiche sulla vita del paziente oncologico: non potrà andare a lavoro per un lungo periodo, a volte la conseguente perdita del lavoro e della propria autonomia, fino ad arrivare allo sconvolgimento delle dinamiche familiari. Spesso la vita di intere famiglie ruota attorno ai tempi della terapia del proprio congiunto, che non è più autonomo, e spesso si aggrava.
I livelli di ansia, rabbia e depressione sono indici della reazione normale del paziente alla malattia. Quando tali livelli sono elevati o con manifestazioni croniche e associati a un’intensa sofferenza soggettiva, a un funzionamento psicosociale e a relazioni interpersonali compromesse, è opportuno parlare di reazione patologica. Questo tipo di malattia porta la persona che ne è affetta a fare un ripetuto sforzo di adattamento.
Il sostegno psicologico da parte di un esperto promuove e aiuta questo adattamento, il quale rappresenta l’insieme di risposte cognitive, emotive e comportamentali dell’individuo. Essendo questa malattia a fasi, ognuna di esse è caratterizzata dalle reazioni psicologiche date dalle esperienze pregresse, dalla percezione di minaccia e dalle risorse disponibili al momento.
Molti credono di farcela da soli, affrontano solo l’aspetto prettamente medico di questo tipo di situazione.
Rivolgersi a uno psicologo in questi casi può aiutare non solo a gestire l’ansia e lo stato depressivo, ma a gestire le relazioni con i familiari che assistono il malato, anche loro con forti contraccolpi psicologici.
L’ansia è una condizione che, al giorno d’oggi, caratterizza e influenza la vita di molte persone. Può manifestarsi in tanti modi, con attacchi di panico, ipocondria, ansia generalizzata, fino ad arrivare alle più “quotidiane”, ma a volte fortemente invalidanti, fobie specifiche.
La Terapia Cognitiva è il trattamento d’elezione per questo tipo di disturbi e spesso utilizza tecniche specifiche per il superamento e, soprattutto, la comprensione di tali difficoltà. Una fra tutte, usata sia per il trattamento delle fobie specifiche che per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è l’ERP (ESPOSIZIONE CON PREVENZIONE DELLA RISPOSTA).
Guidato dallo psicoterapeuta l’individuo può seguire un percorso che consta di due distinti elementi: l’esposizione e la prevenzione della risposta. Prevede, dunque, che i pazienti entrino in contatto con gli stimoli ansiogeni per un tempo più elevato di quanto sono solitamente disposti a tollerare, per arrivare a bloccare i comportamenti messi in atto normalmente dal soggetto dopo essere entrato a contatto con tali stimoli.
Semplicemente pensi di voler intraprendere un percorso per affrontare la tua ansia e non sai da dove iniziare?
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Il test di Rorschach, che prende il nome dallo psichiatra svizzero Hermann Rorschach, è uno strumento di indagine della personalità.
La continua verifica sperimentale in ambito psicologico tesa a valutare la fondatezza del materiale interpretativo prodotto, ha fatto si che negli anni questo test sia stato definito come uno strumento proiettivo valido e riconosciuto.
Questo reattivo sfrutta il meccanismo inconscio della proiezione, in base al quale, di fronte ad un’immagine ambigua e poco strutturata, il soggetto tende a proiettare su di essa il proprio mondo interno fatto da fantasie, ricordi e significati personali, piuttosto che osservarla in maniera oggettiva.
Il test è composto da 10 tavole, sulle quali sono presenti delle macchie simmetriche simili a quelle che si potrebbero creare quando si lascia cadere dell’inchiostro su un foglio di carta.
Le tavole sono 5 monocromatiche, 2 bicolori e 3 colorate, tutte caratterizzate da toni chiaroscurali. Il contenuto di ogni tavola evoca nel soggetto sottoposto al test determinate situazioni psicologiche o manifestazioni affettive, ad esempio disagio, stupore o turbamento, ma anche manifestazioni positive.
É importante far presente al soggetto che non ci sono risposte giuste o sbagliate e che ognuno risponde agli stimoli in modo individuale e unico.
L’interpretazione di quanto detto dal paziente consente di tratteggiare un profilo attitudinale e di fronteggiamento dello stress e uno più generale di personalità, oltreché di far emergere eventuali problematiche. Va detto che questo test rappresenta lo strumento preferenziale se si desidera approfondire alcune dinamiche interpersonali e di modulazione delle emozioni.
Nell’effettuare un esame psichico dunque, lo psicologo, che somministrerà il Rorschach previa formazione di due anni, integrerà l’utilizzo di tale test con il metodo clinico, tradotto attraverso colloqui liberi e tematici.
In questo caso può essere necessario quando si vuole intraprendere una psicoterapia: in tal modo lo specialista potrà avere un più agevole accesso al mondo interiore del paziente. Inoltre esso può essere utilizzato nel caso in cui la storia clinica del soggetto sia caratterizzata da diversi pareri diagnostici.
Può essere in grado di dare indicazioni ad esempio su:
Grazie alla lettura di questo test, d’altra parte, è anche possibile delineare in maniera più accurata le principali modalità comportamentali del paziente.
Risulta quindi un utile strumento per far emergere elementi importanti della personalità del paziente, nonché dei suoi vissuti emotivi, in modo da avere un orientamento per lo sviluppo di un progetto terapeutico.
Il consulente, nominato dal giudice, di solito si avvale, oltre che dell’utilizzo dei colloqui psicologici, anche di una batteria di test per valutare lo stato psichico del soggetto in questione, che sia in ambito civile o penale.
Le tipologie di situazioni dove possono essere utilizzati i test, a seguito della nomina di un consulente tecnico, sono svariate, dalla valutazione della capacità di intendere e di volere, all’ambito minorile (penale), alla valutazione della capacità genitoriale (ambito civile).
Lo psicologo giuridico incaricato dal giudice, per somministrare il Rorschach dovrà essere un esperto con formazione biennale.
Lo psicodiagnosta arriverà dunque alla stesura di una relazione usando gli indici emersi dalla complessa analisi del protocollo Rorschach , questi verranno utilizzati per la costruzione di un profilo di personalità e, ove possibile, per la formulazione di un’ipotesi diagnostica. In ambito giuridico, per la stesura di una relazione completa ed esaustiva gli indici del Roschach verranno correlati con quelli di altri test costituenti la batteria, di solito quelli usati sono MMPI, Disegno della Figura umana e WAIS.
In generale un esperto di somministrazione del Rorschach può essere interpellato sia in ambito giuridico sia dai suoi stessi colleghi che vogliano avvalersi di un esperto per avere un quadro maggiormente chiaro del proprio paziente prima o durante il percorso psicoterapeutico.
Se stai cercando a Roma uno psicodiagnosta esperto nella somministrazione del Rorschach o hai necessità di una valutazione psicodiagnostica contattaci presso il nostro studio di Roma. In particolare la Dott.ssa Francesca Castellano è Psicologa, Psicodiagnosta, Psicologa Giuridica e si occupa di:
È un disturbo in cui il soggetto teme fortemente che le proprie prestazioni possano essere esposte ad un giudizio negativo da parte degli altri.
Detta così, potremmo un po’ tutti ritrovarci in questo disturbo, ma non è semplice, una persona affetta da fobia sociale vive il disturbo come fortemente invalidante per la sua vita ed, effettivamente, lo è poiché fa si che anche le azioni che possono sembrare più banali, come mangiare in pubblico, firmare o parlare con uno sconosciuto, causino nell’individuo una forte ansia e lo portino ad evitare le situazioni che la provocano.
Il concetto di paura del pregiudizio è l’aspetto pregnante della fobia sociale, anche perché porta al mantenimento dell’ansia sociale.
Il modello cognitivo della fobia sociale può riassumersi col modello, sopra esposto, di Clark e Wells che prendono in considerazione il ruolo dei processi di autovalutazione negativa.
Quando il fobico deve affrontare una situazione sociale la giudica, a prescindere, pericolosa, temendo di agire in modo inadeguato e ciò lo porterà a forti ripercussioni negative sull’immagine che gli altri hanno di sè e sulla sua stessa percezione di se stesso.
Tutti questi giudizi di pericolo attivano cambiamenti fisiologici, cognitivi, emotivi e comportamentali che caratterizzano lo stato di ansia.
Questa attivazione è giudicata essa stessa un pericolo poiché potrebbe andare ad inficiare la sua prestazione, dunque conduce ad un’escalation dell’ansia e al conseguente mantenimento del problema.
I fobici sociali dunque, concentrano l’attenzione unicamente su loro stessi e le loro reazioni, senza prestare attenzione a quelle degli altri in quel momento, questo effettivamente porta alla riduzione della prestazione e a perdere consapevolezza delle informazioni interpersonali.
Il nostro fobico in realtà utilizza dei comportamenti protettivi, come evitare la situazione temuta, che in realtà rafforzano e perpetuano l’ansia e la percezione di essere valutato negativamente.
Il grande errore sta nel fatto che, per il paziente, se le conseguenze temute non si sono verificate è grazie all’uso dei comportamenti protettivi piuttosto che a giudizi distorti.
Il terapeuta cognitivo, tenendo a mente questo modello, dovrà far emergere le informazioni a lui utili per ricostruire il problema e le sue cause.
Alla base di tutto questo gli servirà comprendere i pensieri automatici negativi che emergono nell’affrontare una determinata situazione fobica, i comportamenti protettivi che il paziente mette in atto, quali sono i sintomi dell’ansia percepiti e come il paziente stesso si percepisce.
Il terapeuta dovrà dunque stimolare il paziente all’autoriflessione, a focalizzare l’attenzione sui suoi pensieri, in modo da poterli riportare interpretazioni che si fanno terapia al fine di comprendere a pieno la percezione di sé e le interpretazioni che fa delle situazioni.
Il terapeuta si focalizzerà su cosa succede nella situazione fobica da affrontare, per ricostruire a pieno ciò che succede, le sensazioni di ansie, i pensieri, e per individuare quali sono i comportamenti protettivi che, con l’avanzare del lavoro terapeutico, andranno eliminati.
Una volta compresi i meccanismi che si attivano, il terapeuta li condividerà con il paziente, in modo da discuterne e illustrarne i vari aspetti.
Il trattamento cognitivo per la fobia sociale si sviluppa in varie fasi ed è piuttosto complesso.
Si parte, prima di tutto, dal modificare i processi di elaborazione del sé, dunque il soggetto deve essere portato ad una reale osservazione di sé, verranno utilizzati registrazioni audio e video in cui il paziente, osservandosi, probabilmente scoprirà che l’immagine che dà agli altri di sé non è poi così negativa.
Altra fase è quella della riattribuzione verbale, arrivando a rielaborare in modo più realistico le convinzioni del paziente e arrivare a considerare strategie alternative, più utili, per valutare la situazione in esame.
In seguito si procederà con veri e propri esperimenti comportamentali di esposizione alla situazione fobica.
Con questi principali punti ho spiegato, in generale, come opera il modello cognitivo, solo per far emergere il principio di modifica e cambiamento che c’è alla base.
In generale dunque, il trattamento cognitivo viene presentato come una sequenza in cui concettualizzazione e spiegazione sono utilizzate per manipolare i comportamenti protettivi e per dirigere l’attenzione verso aspetti esterni alla situazione.
Le manipolazioni comportamentali inoltre, possono contribuire ad identificare i fattori che mantengono la fobia sociale e, spesso, forniscono un suggerimento per modificare l’intensità dei sintomi.
Dalla fobia sociale se ne esce. La psicoterapia, e in particolare la Terapia Cognitiva, si rivelano un ottimo modo per affrontare e meglio gestire, in poche sedute, questo disagio. Contattaci con fiducia, insieme troveremo il percorso migliore per superare la fobia sociale
Il danno da pregiudizio esistenziale indica un danno che contempli un peggioramento della qualità della vita, riconducibile non alla salute psico-fisica ma, piuttosto, ai valori dell'esistenza del danneggiato.
Si tratta, in altre parole, della compromissione, a seguito di un particolare evento traumatico, delle attività che realizzano la personalità dell'individuo, delle sue occasioni felici, della sua vita quotidiana.
La personalità è espressione della peculiarità dell’individuo ed è un costrutto risultante dello sviluppo individuale attraverso continui scambi con l’ambiente. La dinamicità della personalità la porta ad essere soggetta ad alterazioni, l’osservazione clinica e diversi studi dimostrano che c’è un rapporto di causa tra eventi di vita e l’insorgere di alcune sindromi psicopatologiche.
È importante sottolineare che ciascun individuo reagisce in maniera diversa agli eventi con cui interagisce, situazioni che per l’uno potrebbero portare ad un trauma, per l’altro non avranno lo stesso effetto. Ciascun individuo può dare una lettura diversa dell’evento, a seconda della propria storia di vita ed alla spiegazione che da a sé stesso, proprio alla luce del proprio vissuto.
I traumi si configurano come un lutto, reale o simbolico, una perdita di ciò che c’era prima e delle condizioni che caratterizzavano la vita dell’individuo fino all’evento traumatico, che per la giurisprudenza indica come illecito.
L’illecito rappresenta una vera e propria ferita, una frattura tra l’individuo e l’ambiente circostante, situazione aggravata dal fatto che debba affrontare un percorso lungo e difficile come quello della giustizia.
Il danno esistenziale è considerato, dalla giurisprudenza, danno non-patrimoniale, la psicologia giuridica, a puri fini descrittivi, distingue il danno psichico, il danno morale e quello esistenziale:
Il danno psichico si differenzia da quello fisico perché non è tangibile. Possiamo definirlo come un’infermità mentale, una condizione patologica che altera i rapporti tra ricordi e vita vissuta, si ha quindi una riduzione delle funzioni psichiche, ovvero un’alterazione di affettività e tono dell’umore.
Alterazione, in senso peggiorativo, del modo di essere di una persona, sia degli aspetti individuali che sociali. Il primo ambito riguarda gli aspetti emotivi e di adattamento dell’individuo, la sua efficienza e autonomia; il secondo ambito riguarda l’alterazione del manifestarsi del proprio modo di essere nelle relazioni familiari-affettive e nelle attività realizzatrici quali lavoro, hobbies, situazioni sociali.
la giurisprudenza lo mette in relazione con uno stato di tristezza e prostrazione causato dal trauma, dunque rappresenta un vissuto soggettivo che non altera l’adattamento all’ambiente o l’ambito relazionale.
Le tre tipologie di danno non patrimoniale appena descritte,comprendono in sé qualsiasi danno dovuto a comportamento ingiusto altrui che produca una sofferenza nella vita dell’individuo, o una lesione dell’integrità psicofisica, o un peggioramento della qualità della vita di un individuo.
Gli ambiti in cui può essere chiesto un risarcimento per danno esistenziale, oltre che per il noto danno morale, sono diversi:
Per una valutazione del danno esistenziale a seguito di uno degli eventi sopra elencati, ci si rivolge allo psicologo giuridico.
Quest’ultimo sarà chiamato alla valutazione dell’entità del danno e lo farà tramite un’approfondita analisi del soggetto in questione, utilizzando non solo l’osservazione e i colloqui clinici, ma anche test di livello, di personalità, proiettivi e neuropsicologici al fine di approntare una valutazione globale che comprenda sia le funzioni mentali primarie di pensiero, sia gli stati emotivi affettivi, sia la visione di sé all’esterno e nelle relazioni.
Dovrà comprendere, con un’approfondita anamnesi, la preesistenza o meno di disturbi psichici, nonché il livello di integrazione sociale, relazionale prima dell’evento che ha portato al trauma. Sottolineare il cambiamento apportato dall’evento traumatico, e quindi le differenze tra l’individuo che era e quello che è diventato è l’obiettivo della consulenza.
Arriverà dunque anche ad un’attenta e approfondita analisi dello stato attuale della persona. Nella sua relazione potrà quantificare l’entità del danno avvalendosi di apposite tabelle, legalmente riconosciute, che vanno dal danno lieve al danno gravissimo.
Non ci sono criteri standardizzati per una valutazione, ma i parametri principali per lo psicologo sono valutare l’entità del cambiamento nell’ambito: della personalità e dell’assetto psicologico; delle relazioni familiari e affettive; delle attività realizzatrici (attività sessuale, ambito lavorativo).
Se quasi tutti ormai conoscono la funzione dello Psicologo Clinico e dello Psicoterapeuta, meno nota a chi non è del settore, è invece quella svolta dallo Psicologo Giuridico, professionista che può essere utilissimo in ambito giudiziario per avvalorare una tesi, muovendosi in ausilio all’Avvocato. Se stai cercando uno Psicologo Giuridico o hai bisogno di informazioni, contattaci presso il nostro studio di Roma.