Dott.ssa Eleonora Ottaviani - Psicologa

Dott.ssa Eleonora Ottaviani - Psicologa

 Sono una psicologa clinica, mi chiamo Eleonora Ottaviani e offro percorsi di sostegno psicologico individuale e di coppia ispirati all’approccio umanistico-esistenziale.

Credo profondamente nella possibilità di ogni persona di ritrovare equilibrio, significato e autenticità, anche nei momenti più complessi della propria vita. Il mio lavoro si fonda sull’ascolto empatico, sulla presenza autentica e sulla costruzione di una relazione di fiducia, in cui sentirsi accolti e liberi di esplorare il proprio mondo interiore.

Mi sono laureata in Psicologia Clinica e della Riabilitazione e ho completato una formazione triennale post-laurea in consulenza psicologica affettivo-relazionale centrata sulla persona. Sono iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio. Integro nella mia pratica strumenti che favoriscono la consapevolezza, la gestione delle emozioni e la valorizzazione delle risorse personali, con particolare attenzione alla dimensione relazionale ed esistenziale.

In particolare offro supporto psicologico in caso di ansia, attacchi di panico, stress, depressione, difficoltà relazionali, dipendenze affettive, identità di genere, orientamento sessuale, crisi esistenziali, senso di vuoto e crescita personale. Lavoro con giovani adulti, adulti e coppie, offrendo uno spazio sicuro e non giudicante in cui poter riflettere, esprimersi e intraprendere un percorso di consapevolezza e crescita .

Parallelamente alla mia attività clinica, mi occupo di formazione aziendale su tematiche legate al benessere organizzativo, alla leadership e all’orientamento professionale, ed offro consulenze cliniche per una multinazionale svizzera che si occupa di benessere aziendale. Ho inoltre ideato e condotto laboratori di scrittura autobiografica come strumento di esplorazione personale e narrazione del sé.

Ricevo in presenza a Roma (qui a Trastevere o in zona Axa, Acilia) e ad Ardea (Tor San Lorenzo), e offro anche consulenze online.

Per informazioni o per prenotare un colloquio, puoi contattarmi al numero 3382024488 oppure prenotare direttamente tramite il mio profilo sul portale guidapsicologi.it a questo link: https://www.guidapsicologi.it/studio/dottssa-eleonora-ottaviani

338 20 24 488

psicologaeleonoraottaviani@gmail.com

Il potere "curativo" del Rapporto professionista-paziente
di Eleonora Ottaviani, Psicologa clinica e della riabilitazione

 

“Rapporto” è la parola/collante che attraversa e dona senso e profondità ad ogni relazione di cura autentica.
Con l'uso di questa parola, intendo un tipo di rapporto attento e in ascolto, aperto all’accoglienza dell’altro, in grado di guardare ed ascoltare nel profondo la persona che ha bisogno di aiuto.
Un buon lavoro di cura parte dall’umanità del riconoscere che prima ancora delle competenze professionali, delle diagnosi da restituire, degli strumenti e dei saperi da utilizzare, in quel momento, in quello studio, tra una scrivania ed una poltrona, avviene un incontro, si avvicinano due universi. Come scrive Walt Whitman, “Io contengo moltitudini”: ogni individuo racchiude in sé una molteplicità di esperienze, emozioni e significati.

Quando il terapeuta riconosce e accoglie questa complessità, aprendosi a sua volta alla propria molteplicità interiore, nasce una connessione autentica, capace di favorire la trasformazione e la crescita di entrambi.

In quello spazio condiviso si trovano vicine, due persone, da un lato chi soffre e dall'altro chi si prende cura, all'interno di un rapporto il più possibile paritario. Credere che il professionista debba essere neutrale, imparziale o distante dal paziente è un mito ormai superato.
Al centro del rapporto terapeutico deve tornare l’umano.

Guidare un percorso non significa imporre soluzioni, ma costruire una relazione fatta di empatia, presenza e verità. Significa che il professionista, liberato dal ruolo, può incontrare il paziente come persona vera, ascoltandone le fragilità e le sofferenze e cercando in lui le risorse trasformative necessarie alla ripresa e alla cura.
Secondo il modello umanistico-esistenziale ad esempio, “la relazione terapeutica è il primo strumento di cura, ed è nella qualità affettiva di questa relazione che si gioca la possibilità del cambiamento” (IPUE Roma).

La relazione terapeutica spesso non si limita alla coppia professionista-paziente ma richiede un intervento a più voci.
In molte situazioni di sofferenza che coinvolgono corpo, mente, emozioni e relazioni, non può esserci un’unica voce che parli, serve un coro di professionisti, ciascuno con il proprio linguaggio, uniti da un progetto condiviso: la cura della persona nella sua totalità!

È per questo che il lavoro interdisciplinare non è solo una scelta tecnica ma una scelta di valore, etica e umana, che protegge il paziente e sostiene gli stessi professionisti coinvolti nel processo di cura.

Perché una cura a più voci

In passato, il percorso terapeutico era spesso affidato a un singolo professionista, potremmo definirlo un percorso di tipo “one to one”; oggi, invece, sappiamo che il disagio, in quanto richiesta di aiuto della persona, necessita sempre più spesso dell'intervento congiunto di più professionalità.

Prendiamo ad esempio i disturbi dell’alimentazione – come anoressia, bulimia e binge eating – che si prestano ancor di più rispetto ad altri disturbi a parlare dell'importanza della presa in carico in équipe. I disturbi dell'alimentazione “non sono meri disturbi della nutrizione, ma disturbi della relazione” per citare Massimo Recalcati; si tratta di un intreccio di aspetti biologici, nutrizionali, psicologici e relazionali. Il modello integrato vede psicologo/psicoterapeuta, psichiatra e nutrizionista collaborare attivamente.

L’approccio di presa in carico in equipe ha dimostrato di facilitare il ripristino del benessere psico-fisico in modo più rapido e stabile, migliorare l’adesione al percorso di cura ed offrire risposte coerenti e coordinate nella complessità del paziente.

Uno studio clinico su adulti con anoressia nervosa pubblicato dal Journal of Multidisciplinary Healthcare (2024) ha analizzato dati clinici raccolti in 10 anni, tra il 2007 e il 2017, ed ha mostrato che i pazienti con anoressia nervosa seguiti in modalità coordinata e multidisciplinare in ambito ambulatoriale avevano probabilità significativamente maggiori di raggiungere un BMI normale, rispetto a chi riceveva cure ospedaliere non coordinate . In particolare le cure coordinate aumentavano notevolmente le chance di recupero del peso, ed i pazienti restavano in terapia mediamente 4 anni in più, suggerendo un maggiore coinvolgimento rispetto ai trattamenti tradizionali.

Secondo la World Psychiatric Association (WPA), un approccio multidisciplinare e integrato – che include interventi fisici, nutrizionali, psicologici e psichiatrici – è raccomandato come modello terapeutico primario per i disturbi alimentari.

Questa evidenza non solo riconosce l’efficacia pratica dell’équipe, ma ne prescrive anche l’adozione in tutti i contesti specialistici.

Incontrarsi davvero

La vera sfida non è solo mettere insieme competenze, ma ascoltarle in profondità e sincronizzarle tra loro.
Restando nell’esempio proposto di un approccio in equipe in caso di disturbi alimentari: il nutrizionista ascolta il corpo attraverso i suoi bisogni primari, lo psicologo o psicoterapeuta accoglie emozioni e significati ed esplora le dinamiche psichiche in gioco e lo psichiatra osserva i processi neurobiologici e valuta la necessità di interventi farmacologici.

Queste figure convergono nel progetto di cura del paziente, condividono responsabilità e insieme propongono un approccio al problema che il singolo professionista, per quanto abile ed esperto, non può garantire.

All'interno dell’équipe, anche i singoli professionisti vengono considerati e si vedono loro stessi, come persone, con le loro emozioni, i loro dubbi e le loro responsabilità.
È la presenza umana condivisa a rendere autentica la rete di cura che permette al paziente di sentirsi accolto; che gli permette di non sentirsi “in cura” ma parte integrante del processo di cura.

Seguire un modello interdisciplinare può rappresentare un vero atto di coraggio e umiltà: nessuno salva da solo, ma insieme si può accompagnare alla cura con maggiore efficacia e profondità, e questo migliora davvero i risultati, soprattutto nel lungo periodo.

La persona al centro!

Mettere la persona al centro è l’unico modo per prendersi cura davvero. Non si tratta di sommare ruoli e competenze, ma di farli dialogare, perché il sintomo lasci spazio alla storia, al corpo, all’emozione, al vissuto personalissimo della persona, di quell'universo che “contiene moltitudini”.

Gli studi lo confermano: prendersi cura insieme funziona meglio, permette risultati più stabili, migliora l’adesione e sostiene tutti i partecipanti, pazienti e professionisti.
Quando l’équipe diventa comunità di cura, il camice lascia spazio all’umano, e la terapia diventa un incontro vero, ricco di vita, di speranza, di possibilità.
“Essere terapeuti significa anzitutto essere esseri umani capaci di stare in contatto profondo con l’umano dell’altro. Tutto il resto viene dopo” (IPUE, Roma

Dott.ssa Eleonora Ottaviani – Psicologa clinica e della riabilitazione

 

Decidere di iniziare una psicoterapia o un percorso di supporto psicologico è un passaggio importante, che spesso matura lentamente. C’è chi ci pensa da anni e chi lo fa di colpo, spinto da un momento di crisi. È una scelta personale e molto intima, che nasce da una domanda che può affiorare sottovoce o arrivare con tutta la sua forza:

“È arrivato il momento di farmi aiutare?”

Questa domanda può presentarsi nei modi più diversi: un'inquietudine, un disagio che non si riesce a nominare, la sensazione di non essere più al proprio posto o anche solo il desiderio di maggiore comprensione di sé. In questo breve scritto, ho cercato di riflettere su come riconoscere quel momento, su cosa può ostacolarlo e su come la terapia possa diventare uno spazio e un’opportunità per ritrovare se stessi.

Per semplicità userò il termine “terapia psicologica”, o semplicemente “terapia”, per indicare sia la psicoterapia che il supporto o sostegno psicologico: percorsi diversi — in particolare per la formazione del professionista — ma accomunati dalla stessa intenzione di ascolto e trasformazione.

Quando si pensa di iniziare una terapia, spesso si immagina di dover attendere un evento di rottura, una crisi: un lutto, un attacco di panico, un crollo emotivo, una separazione o la perdita del lavoro. In effetti, la crisi è uno dei momenti più comuni in cui si cerca aiuto, momenti nei quali qualcosa dentro sembra dirci con chiarezza:

“Così non posso più andare avanti!”

È proprio quel momento di dolore e di sconforto che diventa spesso la spinta per cambiare.

Ma non sempre serve una crisi eclatante; a volte la scelta nasce da qualcosa di più sottile, quasi impercettibile: il desiderio di conoscersi meglio, di rompere con vecchi schemi, di dare un nuovo senso alla propria storia. In questi casi, avviare una terapia è un gesto di consapevolezza, un atto di cura verso sé stessi. Come scrive Rollo May:

“La libertà non è semplicemente una condizione che si ha o non si ha: è la capacità di fare delle scelte autentiche, che provengono da sé e non dall’adattamento a ciò che ci circonda.”

Anche Carl Rogers, padre dell’approccio centrato sulla persona, ci inviterebbe a considerare la terapia non solo come risposta alla sofferenza, ma come scelta di crescita; per lui, il momento giusto può arrivare quando iniziamo a sentire una distanza tra ciò che siamo e ciò che desideriamo o sentiamo di poter diventare.

Non serve attendere il crollo: a volte è sufficiente accorgersi di un’inquietudine persistente, di un’incongruenza interiore. Iniziare una terapia può essere, così, un gesto di fiducia verso se stessi, un modo per dare dignità a quel bisogno spesso silenzioso di essere finalmente accolti, riconosciuti, ascoltati.

Nel nostro modo di intendere la sofferenza, spesso si pensa che essa vada eliminata in fretta, immediatamente neutralizzata.

E se invece il sintomo fosse un messaggio da decifrare?

L’ansia, l’insonnia, la fame nervosa, l’apatia, per citarne alcuni, sono segnali che ci disturbano nel quotidiano ma possono diventare, se ascoltati, porte d’accesso a una comprensione più profonda di noi stessi. Il dolore non è un nemico, ma una voce interiore che cerca spazio, chiede di essere ascoltata!

Irvin Yalom ci ha insegnato che spesso i sintomi ci parlano di domande esistenziali che non abbiamo mai avuto il coraggio di formulare: il senso della vita, la paura della morte, la solitudine, la responsabilità verso noi stessi. Il dolore, scrive,

“è il richiamo dell’essere umano a confrontarsi con il senso della propria esistenza.”

E Viktor Frankl, psichiatra e sopravvissuto ai campi di concentramento, aggiunge una dimensione fondamentale: la ricerca di significato. Secondo Frankl, non è il dolore in sé a schiacciare, ma il dolore quando è privo di senso; senso che la terapia consente di comprendere.

A volte il disagio si ripresenta come un’eco, come una domanda che non trova risposta; spesso è la sensazione di vivere col pilota automatico inserito, come se si stesse andando avanti per inerzia, senza poter decidere la direzione. Altre volte è una stanchezza emotiva che non si dissolve nemmeno con il riposo, un ripetersi di relazioni piene di frustrazione, un senso di vuoto, come se qualcosa si fosse perso per strada. C’è chi si accorge di non riuscire più a scegliere, nemmeno le cose semplici, e chi sente il bisogno di cambiare, ma non sa da dove iniziare; altre volte è solo la sensazione, quasi fisica, di non riconoscersi più, come se l’immagine esterna, quella che si dà al mondo, non coincidesse più con ciò che si sente di essere all'interno.

Uno degli ostacoli più forti nel cercare aiuto è la paura del giudizio, non solo quello degli altri, ma soprattutto quello verso noi stessi. Siamo cresciuti con l’idea che la risposta stia nel farcela da soli, che parlare del proprio dolore sia un segno di debolezza, che solo chi “ha qualcosa che non va”, “chi è matto” vada dallo psicologo. Eppure, chiedere aiuto è uno degli atti più maturi e responsabili che possiamo fare. È la consapevolezza che non dobbiamo attraversare tutto da soli, non perché siamo incapaci, ma perché siamo umani, esseri di relazione, che verso una relazione sempre tenderanno.

La terapia non è per “chi non ce la fa”: è per chi desidera fare spazio dentro di sé! Per chi vuole capire, conoscersi, crescere. Per chi è disposto a guardarsi con onestà. Rollo May scriveva che la terapia è un processo attraverso cui

“il paziente scopre che può avere fiducia nel proprio mondo interiore.”

Non serve “aggiustarsi”: serve riconoscere il proprio diritto ad esistere per come si è, con tutte le proprie sfumature.

È normale avere dubbi prima di iniziare un percorso psicologico. Normale è vivere paure, resistenze, avere pensieri che fanno da freno.

Spesso ci si chiede:
“E se emergessero cose troppo grandi da affrontare?”
“Se uscisse qualcosa di me che non sono pronto a vedere?”
“Se uscissero i mostri?”

Ma il percorso terapeutico non forza, non impone; la terapia accompagna, accoglie. È un luogo dove quei mostri possono essere osservati, nominati, compresi. È nel contatto con ciò che più temiamo di noi stessi che si apre la possibilità di una trasformazione autentica.

Irvin Yalom diceva che

“la terapia è un incontro”,
e non un trattamento. Non si entra nello studio di uno psicologo per essere corretti, ma per essere visti, compresi, sentiti. Ed è proprio quella relazione, costruita giorno dopo giorno, che diventa il vero strumento del cambiamento.

La prima seduta può creare aspettative e timori, ma, più spesso di quanto si creda, basta semplicemente il primo passo. Non è necessario sapere da dove iniziare o come raccontarsi: le parole, quando saranno pronte, arriveranno. E se non arrivassero, andrà bene lo stesso.
La cosa più importante è aver scelto di compiere quel primo passo, iniziare e mettere un piede dentro quello spazio dove, finalmente, non dovremo più fingere di stare bene.

Iniziare una terapia non significa arrendersi, ma scegliere di prendersi sul serio; di interrompere la corsa e restare, anche solo per un momento, in ascolto di sé e delle proprie voci interiori.

In un mondo che ci chiede di essere sempre performanti, rapidi, brillanti, la terapia diventa uno spazio raro, quasi rivoluzionario. La terapia è un luogo per fermarsi e all'interno del quale finalmente chiedersi:

“Chi sono davvero?”
E ognuno, con i propri tempi, potrà iniziare anche ad abbozzare una prima risposta.

Se qualcosa — anche solo una frase, un’immagine o un ricordo — leggendo queste parole ti ha risuonato…
forse è il momento di fermarti.
È il momento di ascoltarti.
Di iniziare!

Ti auguro un buon cammino di comprensione, crescita e scoperta.