Una richiesta, più voci: il valore del lavoro in équipe all'interno della relazione terapeutica

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Il potere "curativo" del Rapporto professionista-paziente
di Eleonora Ottaviani, Psicologa clinica e della riabilitazione

 

“Rapporto” è la parola/collante che attraversa e dona senso e profondità ad ogni relazione di cura autentica.
Con l'uso di questa parola, intendo un tipo di rapporto attento e in ascolto, aperto all’accoglienza dell’altro, in grado di guardare ed ascoltare nel profondo la persona che ha bisogno di aiuto.
Un buon lavoro di cura parte dall’umanità del riconoscere che prima ancora delle competenze professionali, delle diagnosi da restituire, degli strumenti e dei saperi da utilizzare, in quel momento, in quello studio, tra una scrivania ed una poltrona, avviene un incontro, si avvicinano due universi. Come scrive Walt Whitman, “Io contengo moltitudini”: ogni individuo racchiude in sé una molteplicità di esperienze, emozioni e significati.

Quando il terapeuta riconosce e accoglie questa complessità, aprendosi a sua volta alla propria molteplicità interiore, nasce una connessione autentica, capace di favorire la trasformazione e la crescita di entrambi.

In quello spazio condiviso si trovano vicine, due persone, da un lato chi soffre e dall'altro chi si prende cura, all'interno di un rapporto il più possibile paritario. Credere che il professionista debba essere neutrale, imparziale o distante dal paziente è un mito ormai superato.
Al centro del rapporto terapeutico deve tornare l’umano.

Guidare un percorso non significa imporre soluzioni, ma costruire una relazione fatta di empatia, presenza e verità. Significa che il professionista, liberato dal ruolo, può incontrare il paziente come persona vera, ascoltandone le fragilità e le sofferenze e cercando in lui le risorse trasformative necessarie alla ripresa e alla cura.
Secondo il modello umanistico-esistenziale ad esempio, “la relazione terapeutica è il primo strumento di cura, ed è nella qualità affettiva di questa relazione che si gioca la possibilità del cambiamento” (IPUE Roma).

La relazione terapeutica spesso non si limita alla coppia professionista-paziente ma richiede un intervento a più voci.
In molte situazioni di sofferenza che coinvolgono corpo, mente, emozioni e relazioni, non può esserci un’unica voce che parli, serve un coro di professionisti, ciascuno con il proprio linguaggio, uniti da un progetto condiviso: la cura della persona nella sua totalità!

È per questo che il lavoro interdisciplinare non è solo una scelta tecnica ma una scelta di valore, etica e umana, che protegge il paziente e sostiene gli stessi professionisti coinvolti nel processo di cura.

Perché una cura a più voci

In passato, il percorso terapeutico era spesso affidato a un singolo professionista, potremmo definirlo un percorso di tipo “one to one”; oggi, invece, sappiamo che il disagio, in quanto richiesta di aiuto della persona, necessita sempre più spesso dell'intervento congiunto di più professionalità.

Prendiamo ad esempio i disturbi dell’alimentazione – come anoressia, bulimia e binge eating – che si prestano ancor di più rispetto ad altri disturbi a parlare dell'importanza della presa in carico in équipe. I disturbi dell'alimentazione “non sono meri disturbi della nutrizione, ma disturbi della relazione” per citare Massimo Recalcati; si tratta di un intreccio di aspetti biologici, nutrizionali, psicologici e relazionali. Il modello integrato vede psicologo/psicoterapeuta, psichiatra e nutrizionista collaborare attivamente.

L’approccio di presa in carico in equipe ha dimostrato di facilitare il ripristino del benessere psico-fisico in modo più rapido e stabile, migliorare l’adesione al percorso di cura ed offrire risposte coerenti e coordinate nella complessità del paziente.

Uno studio clinico su adulti con anoressia nervosa pubblicato dal Journal of Multidisciplinary Healthcare (2024) ha analizzato dati clinici raccolti in 10 anni, tra il 2007 e il 2017, ed ha mostrato che i pazienti con anoressia nervosa seguiti in modalità coordinata e multidisciplinare in ambito ambulatoriale avevano probabilità significativamente maggiori di raggiungere un BMI normale, rispetto a chi riceveva cure ospedaliere non coordinate . In particolare le cure coordinate aumentavano notevolmente le chance di recupero del peso, ed i pazienti restavano in terapia mediamente 4 anni in più, suggerendo un maggiore coinvolgimento rispetto ai trattamenti tradizionali.

Secondo la World Psychiatric Association (WPA), un approccio multidisciplinare e integrato – che include interventi fisici, nutrizionali, psicologici e psichiatrici – è raccomandato come modello terapeutico primario per i disturbi alimentari.

Questa evidenza non solo riconosce l’efficacia pratica dell’équipe, ma ne prescrive anche l’adozione in tutti i contesti specialistici.

Incontrarsi davvero

La vera sfida non è solo mettere insieme competenze, ma ascoltarle in profondità e sincronizzarle tra loro.
Restando nell’esempio proposto di un approccio in equipe in caso di disturbi alimentari: il nutrizionista ascolta il corpo attraverso i suoi bisogni primari, lo psicologo o psicoterapeuta accoglie emozioni e significati ed esplora le dinamiche psichiche in gioco e lo psichiatra osserva i processi neurobiologici e valuta la necessità di interventi farmacologici.

Queste figure convergono nel progetto di cura del paziente, condividono responsabilità e insieme propongono un approccio al problema che il singolo professionista, per quanto abile ed esperto, non può garantire.

All'interno dell’équipe, anche i singoli professionisti vengono considerati e si vedono loro stessi, come persone, con le loro emozioni, i loro dubbi e le loro responsabilità.
È la presenza umana condivisa a rendere autentica la rete di cura che permette al paziente di sentirsi accolto; che gli permette di non sentirsi “in cura” ma parte integrante del processo di cura.

Seguire un modello interdisciplinare può rappresentare un vero atto di coraggio e umiltà: nessuno salva da solo, ma insieme si può accompagnare alla cura con maggiore efficacia e profondità, e questo migliora davvero i risultati, soprattutto nel lungo periodo.

La persona al centro!

Mettere la persona al centro è l’unico modo per prendersi cura davvero. Non si tratta di sommare ruoli e competenze, ma di farli dialogare, perché il sintomo lasci spazio alla storia, al corpo, all’emozione, al vissuto personalissimo della persona, di quell'universo che “contiene moltitudini”.

Gli studi lo confermano: prendersi cura insieme funziona meglio, permette risultati più stabili, migliora l’adesione e sostiene tutti i partecipanti, pazienti e professionisti.
Quando l’équipe diventa comunità di cura, il camice lascia spazio all’umano, e la terapia diventa un incontro vero, ricco di vita, di speranza, di possibilità.
“Essere terapeuti significa anzitutto essere esseri umani capaci di stare in contatto profondo con l’umano dell’altro. Tutto il resto viene dopo” (IPUE, Roma

Dott.ssa Eleonora Ottaviani - Psicologa

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