L’ansia è una condizione che, al giorno d’oggi, caratterizza e influenza la vita di molte persone. Può manifestarsi in tanti modi, con attacchi di panico, ipocondria, ansia generalizzata, fino ad arrivare alle più “quotidiane”, ma a volte fortemente invalidanti, fobie specifiche.
La Terapia Cognitiva è il trattamento d’elezione per questo tipo di disturbi e spesso utilizza tecniche specifiche per il superamento e, soprattutto, la comprensione di tali difficoltà. Una fra tutte, usata sia per il trattamento delle fobie specifiche che per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è l’ERP (ESPOSIZIONE CON PREVENZIONE DELLA RISPOSTA).
Guidato dallo psicoterapeuta l’individuo può seguire un percorso che consta di due distinti elementi: l’esposizione e la prevenzione della risposta. Prevede, dunque, che i pazienti entrino in contatto con gli stimoli ansiogeni per un tempo più elevato di quanto sono solitamente disposti a tollerare, per arrivare a bloccare i comportamenti messi in atto normalmente dal soggetto dopo essere entrato a contatto con tali stimoli.
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“Il fiume modella le sponde e le sponde guidano ilfiume”
(Gregory Bateson)
“Dr.ssa, ma lei è junghiana o freudiana?!”, è questo l’incipit con cui spesso chi si rivolge al mio studio di Roma cerca di orientarsi, quando non conosce già il mio approccio e modo di lavorare in stanza di terapia. “In realtà, nessuno dei due...” - sono solita rispondere, con un sorriso che apre la strada al coming-out sul mio approccio teorico di riferimento... ?- ”…sono sistemico-relazionale!”. Segue solitamente silenzio e uno sguardo tra il perplesso e l’incuriosito. Nell’immaginario collettivo, infatti, complice tanta filmografia sull’argomento, esiste principalmente la psicoanalisi di Freud (con tanto di lettino) o la psicologia analitica del suo allievo Jung. Tutto il resto è, per differenza, “psicoterapia non psicoanalitica”. In realtà, le cose non stanno affatto così. Nel tempo si sono andati costruendo e sperimentando numerosi e differenti modelli teorici e di prassi clinica, alcuni dei quali trovano rappresentanza nei professionisti che operano nel centro PsyMed.
Per quanto riguarda l’approccio sistemico-relazionale, che orienta i miei interventi terapeutici (e non di meno quelli formativi), si tratta di un modello che ha già una consolidata storia alle proprie spalle.
Questo modello si sviluppò a partire dagli anni ‘50 negli Stati Uniti, grazie al lavoro dell’antropologo statunitense Gregory Bateson (uno dei primi a teorizzare il concetto di soggetto contestuale) e al contributo di altri studiosi (il famoso “gruppo di Palo Alto”) che iniziarono a interessarsi all’osservazione delle famiglie e dei modelli comunicativi che regolano l’interazione dei suoi membri, applicando i concetti della teoria dei sistemi e della cibernetica. Ne derivarono una serie di “assiomi della comunicazione” e idee che permettono di leggere le situazioni problematiche portate non solo dalle famiglie, ma anche dai gruppi in generale, dalle coppie e dai singoli e di intervenire per produrre un cambiamento.
In Italia questo modello si iniziò a diffonde negli anni ‘80, periodo in cui venne utilizzato nei servizi pubblici, in particolare nel trattamento dei disturbi alimentari e delle tossicodipendenze. Successivamente divenne risorsa a disposizione anche di tanti psicoterapeuti che operano privatamente e adoperato con target di utenza sempre più ampi.
Alcune idee di base che orientano l’agire sistemico:
La terapia viene dunque definita “sistemica”, perché il malessere della persona viene visto non come problema strettamente individuale, bensì come espressione di disagio di uno dei sistemi di appartenenza (famiglia, coppia, lavoro, amici). Mentre il termine “relazionale” fa riferimento alla considerazione dell’identità individuale come risultato delle dinamiche e delle esperienze relazionali del soggetto nel corso della sua vita.
Generalmente chi si rivolge al mio studio di Psicologa a Roma, lo fa in un momento in cui un equilibrio precedente si è incrinato portando a situazioni di sofferenza o disagio, quali: emozioni spiacevoli o dolorose pervasive, malessere o blocco nelle relazioni, confusione. Il disagio, sia esso francamente sintomatico o meno, solitamente insorge in concomitanza o a seguito di cambiamenti che, per essere affrontati in modo evolutivo e quindi non sintomatico, richiedono un’adeguata riorganizzazione, sia a livello individuale che familiare. Sono i cosiddetti eventi critici del ciclo evolutivo della famiglia: matrimonio, nascita del primo figlio, adolescenza, uscita di casa dei figli, separazione, pensionamento, licenziamenti, trasferimenti, malattie, lutti, etc.
Il corrispettivo nel contesto del sistema-scuola potrebbe essere: cambi nella dirigenza, pensionamento degli insegnanti, ingresso di nuovi alunni ad anno scolastico avviato, etc.
Quando questi passaggi non portano con sé quella riorganizzazione necessaria a progredire nel ciclo vitale che segna il percorso di crescita di ogni individuo e sistema, insorgono dei sintomi che possono essere di vario tipo: depressione, ansia, attacchi di panico, disturbi del comportamento alimentare, elevata conflittualità (per esempio di coppia), violenza domestica, difficoltà scolastiche, aggressività incontrollata, etc.
Le persone che arrivano in terapia utilizzano spesso modelli comunicativi e relazionali disfunzionali e ripetitivi e sono portatori di una storia raccontata in modo rigido e a volte “povero”.
L'intervento terapeutico, attraverso un processo di co-costruzione tra terapeuta ed individuo/famiglia e partendo dall’osservazione delle modalità disfunzionali, mira a modificarle, stimolando le risorse familiari e rafforzando sia il funzionamento individuale che quello familiare.
La storia viene “ri-narrata” all’interno del percorso terapeutico, alla ricerca di significati nuovi (a partire dal significato del sintomo portato: quale messaggio comunicativo veicola e quale funzione svolge quindi nel sistema di appartenenza?) che sblocchino il percorso evolutivo, restituendo alle tre dimensioni temporali di passato, presente e futuro un miglior equilibrio.
Nella pratica clinica questo vuol dire dare spazio alla storia (della persona, della coppia e della famiglia), ma anche al “qui ed ora” delle relazioni, lavorando sulle connessioni presenti tra questi due livelli.
Tentando una estrema sintesi e generalizzazione, potrei dire che l’obiettivo dei miei interventi (siano essi clinici o formativi) è di aiutare le persone a mobilitare le proprie risorse per:
In altre parole, l’obiettivo ultimo è consentire al sistema e ai suoi membri di riprendere il percorso evolutivo bloccato, progredire nella propria storia, grazie al “traghettamento” offerto dalla terapia.
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Se è vero che con la riapertura della scuola genitori e insegnanti possono trovarsi di fronte a qualche (ci si augura piacevole o utile!) novità, è altrettanto vero che, ahimè, con grande probabilità dovranno riprendere in mano "vecchie questioni”, tra cui il famigerato bullismo. Ecco allora che ci si chiede “che fare?!”: sento spesso gli insegnanti dire di desiderare una mano per evitare che il fenomeno prenda piede nelle proprie classi o per disinnescare una dinamica già avviata, così come i genitori preoccupati che il proprio figlio possa esserne vittima. A tal proposito, è interessante notare come difficilmente si guardi al proprio figlio immaginandolo possibile autore di bullismo…La funzione di protezione sembra mettere in ombra a volte quella educativa, entrambe in realtà fondamentali nella cura e crescita dei bambini. Eppure, come vedremo in seguito, il bullo ha un suo “profilo” e attraverso gli atti di prevaricazione esprime dei bisogni e un disagio che vanno adeguatamente letti per intervenire efficacemente, a vantaggio di tutti. Ma andiamo con ordine, partendo dall’inquadramento e descrizione del fenomeno.
Innanzitutto, nonostante se ne faccia un gran parlare negli ultimi anni, c’è da dire che il bullismo non è un fenomeno recente: non è facile stabilire da quanto tempo esista esattamente, certo è che ha assunto una sua identità e quindi riconoscibilità già a partire dagli anni ’70, grazie agli studi pionieristici di Olweus, arrivando poi all’attenzione degli studiosi italiani a fine anni ’90.
Come in ogni fenomeno complesso, non è possibile individuare un’unica e definita causa del bullismo secondo l’ormai obsoleto modello lineare, al contrario sono individuabili diverse variabili che giocano il ruolo di concausa all’interno di un modello appunto multifattoriale e circolare. Tra gli elementi di “fragilità psico-sociale” che possono giocare appunto un ruolo nel sostenere oggi il fenomeno, segnalerei il sempre maggiore spazio dato alle logiche di potere nei diversi contesti sociali e l’indebolimento della funzione educativa della scuola e della famiglia. Il contesto tra pari diventa allora il terreno in cui giocare in modo aggressivo alcuni bisogni disattesi. Altro fattore di rischio (tanto per il bullo quanto per la vittima), può essere crescere in un ambiente dove c’è violenza domestica, ossia esposti a un modello relazionale regolato sul (abuso di) potere, con dinamiche vittima-carnefice.
Internet, poi, come sappiamo può essere un’ulteriore e pericolosa arma a portata di mano: il cyberbullismo si serve dell’anonimato e della vetrina virtuale per colpire in modo subdolo e doloroso la vittima, diffamarla, escluderla: si lancia la pietra e si nasconde la mano (dietro un profilo virtuale, appunto), si “lapida” la persona con la convinzione/scusante che non sarà quella singola pietra a ucciderla e invece… Dobbiamo purtroppo fare i conti con questa nuova e insidiosa forma di bullismo che va ad affiancarsi a quello diretto (con aggressioni fisiche o verbali) e a quello indiretto (pettegolezzi ed esclusione, agite nei contesti scolastici).
Per quanto riguarda le vittime di bullismo, si tratta solitamente di ragazzi ansiosi, insicuri, con scarsa autostima, isolati in classe. A volte sono portatori di una “differenza” che li rende in un certo senso più facilmente attaccabili (per esempio: omosessualità, sovrappeso, scarse abilità sociali o intellettive, stile non alla moda).
Come sappiamo, capita spesso che insegnanti e genitori non si accorgano di quanto accade quasi sotto il proprio naso...perchè?! Beh, diciamo che riconoscere la vittima di bullismo può non essere semplice ad un primo sguardo in quanto (ed è questo ciò su cui fa leva il bullo e che mantiene attivo il circuito), vinta dal senso di vergogna e dalla paura tenderà a nascondere le vessazioni subite. Può essere utile allora prestare attenzione ad altri segnali, sebbene aspecifici: bambini e adolescenti comunicano molto attraverso il canale non verbale (comportamenti e corpo) piuttosto che con le parole, per cui potrebbero comparire insoliti atteggiamenti di ritiro, somatizzazioni, disturbi nelle condotte alimentari.
Per quanto riguarda invece l’autore di bullismo, c’è da dire che l’immagine del bullo con bassa autostima e contesto familiare di provenienza problematico è stata smentita da studi più recenti: è in genere un ragazzo con elevata autostima, bassa tolleranza alle frustrazioni, spesso viziato dai genitori. Attraverso il suo comportamento aggressivo, il bullo esprime il proprio bisogno di potere e dominio sugli altri: è alla ricerca di popolarità, rispetto e consenso nel gruppo. In altre parole, si sente un leader, ma non lo è affatto, poiché gli mancano le caratteristiche base per esercitare una vera e sana leadership: empatia, capacità di coinvolgimento e valorizzazione degli altri, senso della comunità. Il suo comportamento sembra pertanto parlare di una fragilità (intesa come “mancanza di”), ma non di insicurezza.
Mi sembra interessante segnalare, inoltre, che non è da escludere il viraggio da vittima a bullo: in alcuni casi, cioè, un ragazzo bullizzato diventa successivamente bullo, per via di un processo psicologico noto come “identificazione con l’aggressore”, cosa che gli permette anche una difesa da future aggressioni.
Altro elemento interessante: non sembrano esistere grandi differenze tra maschi e femmine in termini di incidenza del fenomeno, bensì solo nelle modalità. Poichè l’aggressività femminile tende ad esprimersi prevalentemente attraverso comportamenti verbali, le bulle puntano a danneggiare la vittima nelle sue relazioni sociali attraverso l’isolamento, il pettegolezzo, la critica. Ma alcuni recenti fatti di cronaca, sembrano dire che alla regola c’è l’eccezione, o forse addirittura una nuova realtà: anche le ragazze possono esercitare il cosiddetto bullismo diretto, con violenza fisica.
Vediamo tre indicazioni che, esplorando per così dire il problema da monte a valle, possono aiutare a gestirlo:
La si può fare sia attraverso laboratori e progetti a tema (che possano offrire sostegno e formazione agli insegnanti, ma anche lavorare con i ragazzi) sia a più ampio spettro facendo educazione emozionale, utilizzando metodi educativi cooperativi ed empatici. La figura dello psicologo è una preziosa risorsa nella progettazione e/o coordinamento di queste attività.
A volte, sia i genitori che gli insegnanti possono essere tentati di leggere come “semplice ragazzata” qualcosa che merita invece una diversa attenzione, mentre è importante intervenire precocemente per evitare che si strutturi una vera e propria dinamica di bullismo.
Nel momento in cui gli atti di bullismo vengono a galla è importante che siano riconosciuti come tali e che ci sia una risposta sinergica e coerente da parte di genitori e insegnanti. Negare o sminuire l’accaduto, è assai dannoso. I bambini, e ancor di più gli adolescenti, hanno bisogno di adulti responsabili e di riferimento, capaci di “tenere” e rispondere ai propri comportamenti aggressivi o di sofferenza, se necessario proteggere e guidare. L’adulto delegante o spaventato non solo non aiuta i ragazzi nel loro percorso di crescita ma li danneggia.
Come abbiamo già accennato, la psicologia ha diversi strumenti da mettere in campo nella prevenzione del bullismo, nonché nel sostegno dei diversi attori coinvolti nel fenomeno: la scuola, le famiglie e i ragazzi ne hanno tanto bisogno!
Ci sono poi gli strumenti di cura propri della psicoterapia, che possono essere rivolti a:
la psicoterapia può offrirle uno spazio di ascolto e accoglienza del disagio utile a trovare la forza per uscire dal ruolo passivo che alimenta il circuito. Spesso arrivano in terapia giovani adulti che hanno subito segretamente atti di bullismo durante gli anni scolastici, in questo caso la narrazione e revisione della propria storia può aiutare ad elaborare i propri vissuti dolorosi e a trovare chiavi di volta per uscire da situazioni di analoga passività nel presente.
E’raro che il bullo arrivi in terapia nel periodo scolastico, forte del suo “successo” tra i pari. Può accadere invece dopo, quando, finita la scuola, la sua popolarità sfuma e lo stigma sociale per le condotte aggressive diventa più forte. Il lavoro si concentrerà sulle sue abilità sociali, autostima etc.
Non di rado mi capita di avere in terapia dei genitori di ragazzi bulli o bullizzati: in questo caso lavoro a sostenere la loro spesso fragile capacità di corretto e pronto intervento nei confronti dei figli.
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